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In the Nazi-occupied France…

 

BASTARDI SENZA GLORIA

(Inglorious Basterds)

(2009) di Quentin Tarantino

 

Un film di guerra che diventa un ennesimo, potentissimo atto di amore verso il cinema. E’ questo l’esito di Bastardi senza gloria, che ti aspetti fortemente di genere e che invece non lo è, inflazionato e reinventato dal genio cinefilo e manipolatore di Quentin Tarantino.

Non poteva essere altrimenti, d’altronde. Tarantino riprende la sua amata divisione in capitoli e crea un film che è un miscuglio di generi, toni, tematiche e storie, tutto mirabilmente sintetizzato nella seconda metà del film, dove il Cinema prende il sopravvento sulla Storia e la riscrive con cuore e rabbia, malinconicamente e utopisticamente. Il simbolo è il cadavere di un uomo (di alcuni uomini) su cui tutti, forse, avremmo infierito senza pietà. E allora scopriamo che se in passato Tarantino poteva essere accusato di una certa distanza emotiva, di poco cuore, stavolta davvero questo non possiamo imputarglielo.

La trama è fantastica, non la si può descrivere se non per accenni. Dalla storia di Shosanna (una fantastica Melanie Laurent), unica ebrea sopravvissuta allo sterminio della sua famiglia, che si ritrova 4 anni dopo proprietaria di un cinema parigino e che potrà elaborare un crudele piano di vendetta verso il gotha del potere Nazista;al gruppo di ebrei americani guidati dal tenente Aldo Raine (un Brad Pitt sorprendentemente non protagonista), con i loro violentissimi atti di rappresaglia che li rendono noti tra i soldati tedeschi come i “Bastardi”, fino al cinico e manipolatore nazista interpretato da un magnifico Cristoph Waltz. C’è tanto altro, ma tutto concorre a un complesso, rabbioso piano di Vendetta splendidamente delineato e capace di tenere incollati gli spettatori allo schermo fino all’ultimo, con suspence e colpi di scena.

Che Tarantino fosse (anche) un grande regista d’attori questo è risaputo, e Inglorious Basterds ne è l’ennesima conferma. Qui la sua regia è insolitamente meno vistosa, proprio perchè questo Bastardi senza gloria è soprattutto un film di personaggi; è molto parlato, forse fin troppo,soprattutto in una prima metà ben poco dinamica; non ci sono le scene di battaglia o di massa che ti aspetteresti da un film di genere, ma tutto dirige verso un finale esplosivo (davvero) che può essere preso a Manifesto di come si debbano scrivere personaggi,dialoghi e dinamiche mai prevedibili, ricchi e complessi.

E poi, diciamocelo, ci si diverte. Perchè sì, Bastardi senza gloria è un film sui Nazisti divertente, forse è il primo, perlomeno esplicitamente non comico. Si fa fatica a definire l’Hitler e il Goebbels delineati dal film come caricaturali o eccessivi, perchè è una risata, quella che scaturisce osservando questi personaggi, doverosa, genuina, ennesimo e meritato insulto a figure terribili e inspiegabili. La violenza, soggetto estetico per eccellenza secondo le parole del regista americano, è sempre trattata con intelligenza, soprattutto in un film come questo che di violenze e crudeltà ne poteva sfoderare molte di più. Non si vuole e non si può dimenticare, ovvio. Ma di mancanza di rispetto, perfavore, non ne parliamo.

 

Infarcito da dialoghi fantastici nella loro (apparente) semplicità e dall’ennesima carrellata di personaggi memorabili, Bastardi senza gloria è un film che nella sua complessità e nella sua interezza (merita sicuramente più visioni) fa dimenticare qualche piccolo difetto, qualche piccolo squilibrio forse inevitabile per un film tanto voluto, desiderato ed elaborato dal suo regista (quasi 10 anni per scriverlo).

Fortunatamente e inevitabilmente però, è un film Tarantiniano in tutto e per tutto, forse ancora più radicale nella sua idea di Cinema rispetto al precedente (e sottovalutatissimo) Death Proof.

Un’idea di Cinema bella e romantica.

Bastardi senza gloria ****

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L’orrore nel nulla

ANTICHRIST

(2009) di Lars Von Trier


L’inizio:un videoclip patinatissimo, stile pubblicità di una qualunque marca di profumo. Marito e moglie (Willem Defoe e Charlotte Gainsbourg) stanno facendo l’amore sulle note dell’aria "Lascia che io pianga"; nel frattempo, loro figlio, piccolissimo, incustodito, cade dalla finestra. Trauma ovvio e distruttivo; nel tentativo di ricominciare a vivere e superare il dolore, lui, psicoterapeuta, porta la moglie in mezzo ai boschi (in una foresta chiamata "Eden", primo di tanti e totalmente inutili richiami religiosi). Foreste che si riveleranno catalizzatori di paure ancestrali e nascoste, di malvagità assurde e ingiustificate.

Due attori semplicemente strepitosi, questo è vero. Ma poco altro:nel calderone Von Trier (regista che definire indecifrabile e provocatorio, almeno in questo caso, è poco) butta sesso esplicito e violento, (auto)lesionismo,atmosfere oniriche, immagini di una bellezza sublime che però non pungono, rimangono glaciali nella loro perfezione estetizzante. Von Trier sa di essere bravo, sa di saper giocare con maestria con le immagini, e si autocelebra in maniera compiaciuta. Ma dietro l’esercizio stilistico rimane un film profondamente, e incredibilmente, vuoto e pretestuoso. Si sfiora spesso il ridicolo involontario (a Cannes, dove il film è stato presentato, fischi e risate hanno trionfato come non si sentiva da tempo), proprio perchè il limite tra provocazione e inutilità, voyeurismo, violenza gratuita, è sempre sottilissimo e qui è pesantemente oltrepassato.
Il film sarà anche disturbante e efficace, soprattutto nella ultima parte. Ma è un disturbante legato soprattutto a delle derive del torture porn più recente, quello alla Hostel, per capirci. Antichrist è un film coraggioso nella misura in cui è una prova di autosofferenza per lo spettatore; ma è una sofferenza inutile, che non entra sottopelle, rimane a livello di mera provocazione.
Il vero Male, e i ragionamenti su di esso, sono di ben altro spessore e longevità. Si chieda a un Kubrick o, per rimanere più sul recente, ad Haneke e al suo devastante Funny Games.

Perplessità.

Antichrist  **

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Non ci sarà un’altra Cuba

CHE – GUERRIGLIA
(2008) di Steven Soderbergh

Credo sia ingiusto limitarsi a dire che Guerriglia sia molto, molto più bello, dolente e coinvolgente di L’argentino. Nella prima metà dedicata alla figura del Che Soderbergh aveva peccato di eccessiva freddezza e distacco, pur nell’accuratezza della visione. L’Uomo spariva nella cronaca. Guerriglia è invece un film (nel film) completamente differente. I motivi sono ovvi.
 
Lo sguardo di Guerriglia è quello di un uomo che cammina a testa alta in mezzo alla disillusione e alla consapevolezza che in Bolivia non ci sarà un’altra Cuba. Il sistema, gli Stati Uniti, stavolta non lo permetteranno. Ed è per questo che il sacrificio e gli ideali dell’uomo Che brillano, ed emozionano, in mezzo alla sofferenza e alla sconfitta imminente. Un personaggio qui inevitabilmente più potente e vero, in una realtà in cui pochi -nessuno- sono pronti a sacrificarsi per i suoi stessi ideali, anche lo stesso "compagno" Fidel, che si gode il potere in alberghi di lusso,organizzando la rivoluzione in Bolivia tra un brindisi e l’altro. Per citare una frase abusatissima, è nelle difficoltà che si vede il vero uomo. Nella caduta verso il basso, nella morte, spesso incredibilmente più cinematografiche ed emozionanti del successo e della vittoria su tutti i fronti.
 
E’ un film sulla morte e sulla sofferenza questo Guerriglia. Sostenuto da un Soderbergh sempre impeccabile alla regia e da un Benicio Del Toro immenso, è un film che ha decisamente più valore dell’Argentino. Almeno nel riuscire  a ritrarre un’icona che la Storia ha reso più banale e strumentalizzata di quanto meritasse.
 
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L’argentino

CHE – L’ARGENTINO
(2008) di Steven Soderbergh

Se già di per sè il biopic (cioè, il film biografico) è un genere più di altri a rischio retorica, un biopic su Ernesto Guevara, per tutto l’amore/odio/attaccamento politico che scatena ancora oggi, è già a priori un film particolarmente "pericoloso"; per tutti i pregiudizi di chi il film non lo vorrà mai vedere (in America ha incassato una miseria…eheh) o per tutto l’interesse di chi va al cinema intenzionato a rivivere il mito, gli ideali, i valori, l’umanità del Che. Insomma, rimanere indifferenti e imparziali potrebbe essere difficile anche solo davanti alla locandina del film.

A venirci tutti incontro è il film stesso. Soderbergh, regista davvero indecifrabile per come continua a cambiare registri e argomenti di film in film, mira in queste prime due ore (le altre due le vedremo a Maggio) a raccontare la trasformazione di Guevara da medico idealista a leader della rivoluzione cubana a fianco di Fidel Castro. Basandosi esplicitamente sugli scritti di Guevara stesso, Soderbergh decide di dare un taglio inevitabilmente cronachistico, quasi documentaristico degli eventi. Espliciti in questo senso i flashforward in bianco e nero sul celebre discorso del Che all’ONU nel 1965, o gli stralci di un’intervista rilasciata a New York negli stessi giorni. Contemporaneamente però non ci si poteva esimere dal tentare di raccontare l’uomo, la personalità del protagonista. Ed è qui che il film pecca forse di eccessiva freddezza.

Benicio Del Toro è autore di una performance pazzesca per somiglianza fisica e per capacità di esprimere passione e sofferenza nei momenti topici del racconto. Quello che ne esce è un ritratto sì umano e realistico,senza alcuna intenzione di farne un prodotto-santino, ma il ritratto di un uomo fotografato solo per piccoli dettagli, stralci, che rimane troppo distante dallo spettatore.

E’ un problema di temperatura, quello di Soderbergh. Dettagliatissimo e molto curato, il film però, nella sua anti-eroicità, non si accende mai veramente, forse a causa della volontà di non accostarsi mai (almeno direttamente) alle vere durezze ideologiche-politiche del personaggio.
Non è questione di schieramento politico, è forse solo una questione di calore umano. E il Che di Steven Soderbergh è un film  troppo preciso per accendere quella "scintilla".
Un film di qualità e quantità, ma di cui è difficile innamorarsi.

CHE – L’argentino  ***

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The Lucky Painting

ROCKnROLLA
(2008) di Guy Ritchie


L’ex-marito di Madonna. Per molti, per moltissimi, Guy Ritchie è e rimarrà tristemente solo questo. Menti troppo pigre per andare a ripescare dalla filmografia del giovane regista inglese gioiellini come Lock & Stock e Snatch, crudeli e divertentissimi gangster movies che lo hanno proposto (a suo tempo) come uno dei filmakers più promettenti.
Poi gli inciampi: Travolti dal destino (orripilante commedia con protagonista l’allora moglie Madonna) e il cervellotico  Revolver, tentativo (malriuscito) di tornare alle atmosfere dei primi lavori.
Obiettivo invece pienamente raggiunto da questo RocknRolla, cioè Guy Ritchie che ammette umilmente di aver sbagliato e torna a sè stesso, a quello che sa fare meglio: cioè il regista di genere. E il genere è quello, appunto, di Snatch e Lock & Stock: infarcito di delinquenti sgangherati, crudeli boss, storie a incastro paradossali, battute dalla comicità gelida e fulminante, eslposioni di violenza improvvise. Un genere assolutamente derivativo, per carità. Ma che funziona.

La storia ruota qui intorno al Wild Bunch, un trio di delinquentelli di mezza tacca (guidati da Gerard Butler, il Leonida di 300), che si indebita con un potente boss londinese (un fantastico Tom Wilkinson). Tra speculazioni edilizie e appalti illegali, però, capita che è proprio il boss a indebitarsi a sua volta con un miliardario russo (in cui si riconosce ironicamente, ma nemmeno troppo, Roman Abramovich); di mezzo un’ ingente somma di denaro e un dipinto "fortunato". Ma anche la presunta morte della rockstar Johnny Quid, strozzini, avvocatesse sexy, gangsters omosessuali, droga……e dove va a parare tutto ciò?

A niente, sostanzialmente. Però ci si diverte. Tra il noir, la commedia e il grottesco, RocknRolla fa il suo onesto lavoro: ha un gran ritmo, delle scene formidabili (su tutti, i russi indistruttibili e il sesso lampo) e un paio di trovate niente male, come quella di svelare il vero protagonista della storia solo dopo la metà del film. Un po’ fastidiosa, al contrario, la continua voce fuori campo, insistente e didascalica.

RocknRolla non è un capolavoro, e non vuole di certo esserlo: non è nè raffinato nè profondo. Anzi. Ma sa di essere quello che è, e il suo lavoro -cioè, divertire- lo fa egregiamente.
Abbiamo ritrovato un regista.

RocknRolla  ***
Al cinema dal 24 Aprile 2009

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Caro Vecchio Clint

GRAN TORINO
(2008) di Clint Eastwood


Direi che ormai siamo arrivati al punto tale per cui recensire un film di Clint Eastwood è quasi superfluo. Perchè, inutile dirlo, (beh,su,ovviamente non lo è) Gran Torino è bellissimo. Ed esce a soli pochi mesi di distanza da un altro capolavoro di Eastwood, quel Changeling anch’esso snobbato dall’Academy. Ingiustamente, come questo Gran Torino. Ma un motivo forse c’è, proveremo a spiegarlo.

Walt Kowalski è il tipico personaggio alla Clint Eastwood, e non c’è davvero niente di male in questo. Clint non ha bisogno di stupirci, non più ormai, e nel personaggio del burbero vedovo che vive solo nei sobborghi di Detroit si intravedono echi di tanti (forse, tutti) personaggi di Eastwood. Ma è normale perchè un così grande regista, un così grande attore, ha una Storia alle spalle, un mito (senza esagerare) che, soprattutto in questo film-che, Clint ha annunciato, sarà il suo ultimo da attore- è fondamentale per entrare e lasciarsi prendere dalla vicenda.
Reduce con tanto di medaglia dalla guerra in Corea , dove ha assistito ad atroci orrori (anche qui, niente di originale, no?), Walt è appena rimasto vedovo, tutti lo allontanano, anche la sua famiglia, per i suoi modi burberi. E’ razzista e volgare con i suoi vicini, che sono guarda caso dei Hmong (cioè, vengono da una zona tra Tailandia, Laos e Vietnam) e l’unico ad avvicinarlo è sostanzialmente il suo vecchio labrador, Daisy. Il ringhioso Walt diventa però suo malgrado l’eroe del quartiere per aver allontanato (fucile alla mano, of course) una banda di delinquenti che cercavano di "reclutare" il giovane e timido Thao, il figlio dei vicini. Un’azione che avrà ovvie conseguenze sulla vita di Walt e su quella di tutto il vicinato.

Non c’è bisogno di dire di più, perchè il film e di una semplicità, di un’asciuttezza disarmante. Di una semplicità che (come in tutti i lavori di Clint) rende ancora più efficace il messaggio finale, che non manca mai, duro,diretto e implacabile. E’ la storia di una redenzione, di un’amicizia, ma non solo. E’ uno sguardo lucido su delle realtà dure e degradate. Proprio lì, in America, di un’America (ma non solo) che forse non ha ancora voglia di guardarsi veramente allo specchio. Proprio dietro l’angolo, proprio dietro la porta. Violenze domestiche, violenze giovanili. Perchè la verità, la realtà, sono sempre crudeli, ma mai abbastanza crudeli da non poter essere rappresentate in modo schietto e diretto. Senza fronzoli, magari in maniera prevedibile, (magari con una recitazione degli attori di contorno non eccellente, ma tanto si hanno occhi solo per Clint) ma va bene così. Questa è onestà intellettuale.

Clint è ormai tutti i suoi personaggi, e tutti i suoi personaggi sono lui. Che siano Dirty Harry Callahan, o William Munny degli Spietati, o Frankie Dunn di Million Dollar Baby. Io gli voglio un gran bene, anche per questo. Ma soprattutto perchè la chiamata morale dei suoi film ci ricorda sempre che tutti viviamo in una grande malattia, ma  che uscirne non è impossibile. La speranza ha una sua direzione, e viene dal basso:che sia la lotta solitaria di una madre contro la Legge ingiusta, o la voglia di rivalsa di una pugile 30enne che non ha mai avuto nulla dalla vita, o dall’amicizia assurda (e per questo ancora più bella) tra un timido asiatico e un razzista reduce dalla Guerra. Ogni volta che il singolo si pone a tutela dei Valori universali; Clint Eastwood non fa altro che ripetercelo, in ogni suo film. E lo fa sempre alla grandissima.
Dal 13 Marzo 2009 al cinema

Gran Torino   ****  1/2

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Il curioso caso di David Fincher

IL CURIOSO CASO DI BENJAMIN BUTTON            
(The curious case of Benjamin Button)
(2008) di David Fincher

Il curioso caso di Benjamin Button non è di certo il film che ti aspetti da un regista viscerale, crudele e spesso freddo (nel senso buono del termine) come David Fincher. Regista particolare, da sempre considerato dal grande talento, ma mai capace di entrare nell’"olimpo" dei registi americani nonostante opere ormai di culto come Seven e Fight Club.

Ed è proprio con questi due -ottimi- film che il nuovo lavoro di Fincher condivide il protagonista principale, Brad Pitt. A lui il compito (arduo) di affrontare il ruolo di Benjamin Button, che di certo un uomo comune non è.
Benjamin nasce nel 1919, durante la notte di festeggiamenti per la fine della Grande Guerra. Ma non è solo per questo che la sua nascita, come ci dice la stessa voce narrante di Benjamin, avviene sotto "circostanze inusuali". La madre muore dandolo alla luce…vecchio. Benjamin ha il corpo delle dimensioni di un neonato ma è artritico,rugoso,debolissimo. In fin di vita, praticamente. Il padre, sconvolto, lo abbandona in una casa di riposo per anziani, dove verrà cresciuto dalla tenerissima inserviente nera Queenie (
Taraji P.Henson). In mezzo a tanti vecchietti Benjamin trascorre, perfettamente mimetizzato perchè stanco, rugoso e costretto sulla sedia a rotelle, la sua infanzia. E conoscerà, durante le visite domenicali dei parenti, la bellissima Daisy (in età adulta, Cate Blanchett).

Prima di scegliere che strada intraprendere (cioè, diventare una vera e propria storia d’amore) il film di Fincher sonnecchia nella prima metà, tanto particolare per la natura del suo personaggio (che nel frattempo comincia ad assumere sempre più le fattezze del divo Pitt, prima solo "innestato" digitalmente su altri corpi)
quanto tradizionale nello sviluppo della vicenda, tipicamente da romanzo di formazione. Benjamin inizia a girare il mondo in una nave rimorchio e il film, insieme al progressivo ringiovanirsi del protagonista, decolla.Ed è paradossalmente quando diventa una classicissima e tipicamente impossibile storia d’amore (lui sempre più giovane, lei -Blanchett-sempre più appassita, in più ci si mette di mezzo la maternità) che arriva il Fincher che non ti aspetti:toccante, coinvolgente, emozionante.

Benjamin Button è quel tipo di film in cui la somma delle singole parti è minore del risultato totale, cioè, in altre parole, i singoli difetti non compromettono la qualità complessiva del film.
Questo perchè perfettamente sceneggiato da Eric Roth (che nel genere "film-vita" ci ha già regalato il magnifico Forrest Gump) e magistralmente diretto da Fincher, perfettamente a suo agio anche nell’uso, spesso pesantuccio, di effetti speciali. La storia è così toccante -nel finale, a dire la verità, anche piuttosto malata e inquietante- che si dimenticano certe lungaggini inutili, come ad esempio la classicissima ma anche un po’ forzata cornice narrativa in cui la figlia della ormai morente Daisy sul letto d’ospedale, legge alla madre il diario della vita di Benjamin.

Perfetto visivamente, forse troppo lungo, a tratti freddino ma comunque appassionante, Il curioso caso di Benjamin Button è un film lirico, originale (meravigliosa la parentesi iniziale sull’orologiaio cieco), ma anche discontinuo. Per questo, forse, ancora più affascinante.

Il curioso caso di Benjamin Button  ****

In sala dal 13 Febbraio 2009

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Il 2008 che fu

Dopo aver fatto crescere il livello di attesa a picchi insostenibili (perchè, sostanzialmente, mi sono sempre beatamente dimenticato), per evitare ulteriori forme di isterismo collettivo e di tentativi di suicidio di massa, pubblico con benevolenza il bilancio di questo 2008:

" Beh,che dire, caro diario, è stato un 2008 fantastico! Certo, l’addio alle superiori è stato duro, ma poi l’estate è stata bellissima, ho viaggiato, mi sono divertita, ho anche pensato di stare per innam..

Ok, ehm, no, non QUESTO bilancio, ma quello filmico ovviamente, di ciò che di meglio, di peggio ( e via, anche di così così, non si sa mai) è passato per le nostre sale dal Gennaio al Dicembre 2008. Ah, per la cronaca, NO, non è che abbia visto tutti i film usciti dell’anno (sì, mi è stato chiesto XD). Me ne mancano solo un paio moldavi e due/tre ungheresi, lo ammetto. Rimedierò al più presto!
A voi, my darlings:


Il Meglio:
1) Changeling    di Clint Eastwood

2) Wall-E    di Andrew Stanton
3) Non è un paese per vecchi   di Joel & Ethan Coen
4) Il cavaliere oscuro   di Cristopher Nolan
5) Il treno per il Darjeeling   di Wes Anderson
6) Gomorra   di Matteo Garrone
7) Into the wild   di Sean Penn
8) Il petroliere   di Paul Thomas Anderson
9) In Bruges – La coscienza dell’assassino   di Martin McDonagh
10) The Millionaire   di Danny Boyle (forse un po’ sopravvalutato)


Il peggio:
1) E venne il giorno   di M.Night Shyamalan
2) Io vi troverò        di Pierre Morel
3) Speed Racer       dei fratelli Wachowski
4) Hancock               di Peter Berg
5) Halloween The Beginning   di Rob Zombie (forse la VERA delusione dell’anno)
6) 10.000 ac             di Roland Emmerich
7) Vicky Cristina Barcelona        di Woody Allen
8) Non mi scaricare  di Nick Stoller
9) Ultimatum alla Terra  di Scott Derrickson
10) Southland Tales  di Richard Kelly

(e potrei continuare)

Infine, doverose citazioni per quei film che non si sono "piazzati" ma meritano comunque attenzione, riusciti o meno che siano. Mi viene da pensare a uno dei più angoscianti e intelligenti horror degli ultimi tempi,The Mist di Frank Darabont, a una commedia italiana frizzante e ben scritta (ovviamente, poco vista) Non pensarci di Gianni Zanasi, al geniale film comico di Ben StillerTropic Thunder, al bellissimo Be Kind Rewind di Michel Gondry,al remake shot-to-shot di Michael Haneke Funny Games, che nonostante faccia sorgere più di un dubbio sulla sua effettiva utilità, rimane lo stesso film, profondo, scioccante e potente di sempre, che ovviamente non ha mancato di schifire, esaltare e in generale far discutere per tutti i ragionamenti (a molti spettatori, ovvio,sfuggiti) sul rapporto tra cinema e violenza e tra spettatore e film stesso. Bello, ma perchè rifarlo identico?

Le delusioni, come Miracolo a Sant’Anna di Spike Lee, noioso e retorico, il nuovo 007 di Marc Forster, The Spirit di Frank Miller, Sfida senza regole di Jon Avnet, W. di Oliver Stone, sempliciotto,schierato e sostanzialmente inutile…vabbuò,tanti me li sto anche dimenticando, può bastare così, credo.

Con una domanda finale: che fine hanno fatto bei film-ve li consiglio assolutamente- come Margot at the wedding, Zack and Miri make a porno, Rescue Dawn, Diary of the dead? Potremo mai vederli in sala? O in dvd?


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La medusa letale

SETTE ANIME
(Seven Pounds)
(2008) di Gabriele Muccino
 
 
 
Potrei spendere parecchie parole, e divertirmi anche molto, a crocifiggere -nel mio piccolo,ovvio- il nuovo lavoro della coppia Muccino/Smith, eppure cercherò di essere il più sintetico possibile, perchè di parole, di visibilità, un film talmente brutto non ne merita. Potreste smettere di leggere esattamente qui, visto che, lo dico subito, per la prima volta non mi farò scrupolo di sbandierare trama e finale, proprio perchè davvero, non riesco a prescinderne tanto sono imbarazzanti.
Davvero, se avete un minimo di curiosità di vedere il film, o se comunque riponete anche un minimo di fiducia sulla mia parola, potete tornare su Facebook o a chattare su Msn, o a studiare, o quello che è: Sette Anime è un film pessimo. Vi basti.
 
Chi invece è rimasto incuriosito da un attacco tanto crudele, continui a leggere. Si comincia. Questa è la trama del film.
 
Ben Thomas (in realtà, si chiama Tim, perchè ruberà l’identità del fratello) è un progettatore di razzi spaziali. Un giorno, mentre è in macchina con la moglie, si lascia distrarre da un sms e si schianta contro un pulmino con 6 persone a bordo. Nell’incidente muoiono le 6 suddette persone e ovviamente la moglie. Tim, invece, rimane illeso. Come è giusto che sia Tim è ossessionato dai sensi di colpa e progetta un piano suicida piuttosto arzigigolato: decide di trovare sette persone per cui valga la pena sacrificarsi (e, notare bene, di queste almeno 4 si vedono solo per qualche secondo in tutto il film), come se lui, che ha causato in maniera idiota la morte di 7 persone, avesse anche il diritto di scegliere -ancora- chi vive e chi no e, fingendosi un esattore delle tasse, che è in realtà il lavoro del fratello Ben,comincia a seguirle, studiarle, per venirci in contatto. A una mamma single messicana vorrà donare la casa, ad altri-anzi, a tutti gli altri- donerà varie parti del suo corpo. Al cieco centralinista darà gli occhi, al bambino malato di cancro il midollo osseo, ad un altro un pezzo di fegato, alla malata di cuore (Rosario Dawson, forse l’unica cosa salvabile del film), appunto, il cuore. Tutti miracolosamente compatibili, tutti trovati chissà come, senza alcuna competenza medica ma con il solo aiuto di un amico avvocato che riuscirà, non si sa come, a far ignorare a tutti i medici liste chilometriche di trapianti al cuore per far sì che il cuore di Tim vada proprio alla donna con cui, nel frattempo, è nata una pallosissima storia d’amore tra passeggiate e macchine da stampa di due secoli fa stile Gutenberg.
Dulcis in fundo Tim si ucciderà, facendosi mordere da una medusa velenosa che, non si sa come, è riuscito ad avere e a portarsi a spasso. Alla fine tutti si salveranno, debitori per tutta la vita di tale Tim Thomas.
 
Ovviamente il film non mette le carte in tavola fin da subito. Anzi Muccino prova, fallendo pateticamente, a creare un alone di mistero attorno alla vicenda, stordendo e innervosendo lo spettatore per più di un’ora e tre quarti, spettatore che nel frattempo la sua idea-corretta-se l’è ovviamente già più o meno fatta.
Il nostro Gabrielone nazionale sfodera una incapacità totale di costruire anche un minimo di coinvolgimento o tensione, riempiendo il film di dialoghi inutili, immagini da cartolina alla Mulino Bianco, lungaggini insostenibili. Il tutto per un messaggio finale che se vorrebbe esaltare il sacrificio e la redenzione in realtà esalta in maniera del tutto ambigua (e per questo, pericolosissima) egoismo,pseudo-necrofilia, l’ingiustificata mancanza di ogni forma di autorità.
 
L’intenzione è commuovere e magari il film, per chi ha la lacrima -veramente- facile, ci riuscirà. In realtà io vorrei ringraziare Muccino, Will Smith con la sua paralisi facciale della durata di 120 minuti e chi per loro. Perchè sì, abbiamo pianto. Ma dalle risate, ripensando alla bruttezza e alla stupidità di un film presuntuoso, noioso e moralmente agghiacciante.
 
Da evitare. Difficilmente il 2009, e non solo, offrirà qualcosa di peggio.
 
 
 
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